di
Gaber –
Luporini
MONOLOGO
(Interno – sera – L’attore è seduto sul divano davanti alla televisione)
Ah, “Gli uccelli”… Bene, lo rivedo volentieri. Me lo ricordo poco. Speriamo che Paolino non si svegli. La tengo un po’ bassa.
Però bravo, Hitchcock… Hai visto?… Escono dal negozio… e ti fa vedere il cielo con tutti quegli uccelli… così, come se non c’entrasse nulla. E tu dici: (godendo) Ahi, ahi, qui succede qualcosa. Mascalzone. Ti potrebbe tenere qui delle ore, e poi non succede nulla. Sì, io lo so che poi succede… L’ho già visto!..
Lei è andata a teatro, Paolino dorme, e io mi vedo Hitchcock.
(porge l’orecchio verso la camera) Dorme. Non fa altro: mangia e dorme. Non comunica molto. A sette mesi non si può pretendere. La notte invece comunica: la notte gli piace la compagnia… della mamma, mi è sembrato di capire… anche perché dicono che io non sono bravo. E io, per carità, se non vogliono che me ne occupi… Speriamo che stasera sia buono. Anzi, fammi dare un’occhiata.
(esce di scena e rientra quasi subito) Perfetto! No, dico, com’è messo. Fermo, tranquillo, a pancia in giù: come da indicazioni.
(guarda la televisione) Ah, ecco: lei è in barca che va verso la casa di lui. Peccato, mi sono perso la scena dell’uccello che le sfiora la testa. No, no, è adesso. Ecco, il grido del gabbiano, il primo piano di lei, ed eccolo che scende in picchiata: FRRR!… Che paura! Be’, mica tanto, però. Al cinema mi pareva più un colpo. Sarà lo schermo piccolo, oppure è che uno a casa… va e viene, ci ha altro da pensare. (dà un’occhiata verso la camera) Dicono che mi assomiglia. Un classico. Bruttino è bruttino. D’altronde i bambini piccoli, si sa… Guai a dirlo a lei. Lei se lo prende, se lo sbaciucchia, se lo gode… cioè, proprio come… come un fatto fisico. Come è cambiata. Non era mica così. Tutte le mamme… sì, sono tutte in trance. Non pensano mica.
È come se lo sapessero prima, cosa devono fare. È come se l’avessero sempre saputo.
Ci hanno degli occhi strani… Guarda mia moglie: un animale stordito, stordito e felice. Gira per la casa, tranquilla, come ispirata, mi cammina sopra i piedi, tanto io che ci sto a fare… Secondo me non mi vede nemmeno. Sarà la maternità. La maternità… Dev’essere una roba grossa. Non lo saprò mai. Il padre… il padre è diverso, almeno io… Cioè, certamente quando è più grande… sì. Ma ora… Non mi vengano a dire che si sente qualcosa di… (come dire: grande) Per ora io… faccio quasi fatica a capire che è mio figlio. No, veramente ci sono anche quei padri che… gli piacciono già così piccoli… E il latte, l’odorino… e li puliscono, li lavano… la cacca, gli piace anche la cacca.
No, a me la cacca non mi piace, mi fa un po’ schifo… No, per carità, uno non ci fa caso, si pulisce, però non godo… ecco, non godo.
(avverte nell’altra stanza il bambino che si lamenta) Eccolo che si sveglia. Serve aiuto? Arrivo, arrivo… sono qui apposta. (esce di scena)
(si sente la sua voce) Che succede? Ah, il ciuccio. Dov’è finito il ciuccio? Eccolo qui. Tutto a posto.
(rientra in scena) In fondo non è mica tanto difficile. Basta infilargli qualcosa in bocca. (guarda la televisione) Ora questa parte qui è un po’ noiosa. Lei gli regala i pappagallini… “Gli inseparabili”… Pappagallini?!… Come di là: uno zoo, un lunapark… zzz!… Moschine, farfalline che girano… il festival del Giappone. Non c’è nulla che richiami nonni, zie, e parenti come un neonato. Tutti intorno. E dopo tre giorni: “Ride, ride… hai visto che ride!..” “Ma va?! fammi vedere…” “No, ora non ride più.” Quando c’ero io non rideva mai. A meno che certe piccole smorfie scimmiesche non fossero interpretate come segno di grossa ironia. Ora che è più grande è la stessa storia: “Parla, parla! Ha detto mamma! “Ma no! Io ho sentito uà-uà.” “Ma tu non vuoi capire.” “Come non Voglio, non lo dice… Per carità, lo dirà, lo dirà… per ora fa uà!…”
(guarda la televisione) Un momento: qui è bello, qui è bello… me lo ricordo. I gabbiani attaccano i bambini. Lì per lì sembra un gioco, ma poi capiscono, i bambini… e gridano: “Mamma, mamma!” Loro sì che dicono ‘mamma’, mica Paolino. Lui fa uà… sono sicuro. Sono gli altri che sono matti. E non solo sono matti, ma ce li ho tutti i giorni qui.
Il padre di mia moglie, il notaio… quello non lo vedevo mai, non gli ero neanche simpatico. Arriva Paolino: perde la testa. Gli fa le faccine strane, la bocchina a culo… il notaio, capisci?… gli parla con una vocina… da bambino di dieci anni un po’ deficiente… perché secondo lui così si capiscono di più. Allora fagli ‘uà-uà’, almeno sei scemo come lui.
È incredibile come un bambino riesca a creare intorno a sé un’oasi di imbecillità.
Ecco, ricomincia a piangere (esce di scena)
(si sente la sua voce) Che c’è che c’è ora?!… Non si sta in pace, eh?… Il ciuccio ce l’hai… cosa vuoi adesso? Ma perché piangi così? Che succede? Ho capito, ho capito… ti prendo in braccio. Ecco, così va bene… Buono,buono… Sei furbo, eh?!.. Dormi, dormi… così… buono…
(rientra in scena col bambino in braccio) Meno male, si è calmato. Si dev’essere addormentato. Ha la testina appoggiata sulla mia spalla. Non posso vedere se sta dormendo, ma dal suo respiro mi sembra di sì. Ce l’ho in braccio male. Non dev’essere comodissimo. D’altronde a questo punto non lo muovo. Per carità! Ssss… immobile… sì, piano… arrivo al divano… così… mi siedo. Oddio, si è svegliato. Aiuto, sta gridando come un disperato piange, urla, si agita come un matto… tossisce, ha le convulsioni. Dio, che faccio?. Si contorce, sferra calci, si dibatte senza sosta. Io non so come tenerlo. Lo giro, lo rigiro, gli do dei colpetti sulla schiena. Si calma un po’, ancora un sussulto… si calma, sembra che smetta. Poi tutt’a un tratto: un pianto di gola, fortissimo, ripetuto… attaccato alla mia spalla come se la mordesse. E piange, piange, piange come se soffrisse in un modo pazzesco. Sento le sue gengive che stringono… e la saliva, la saliva che scende ogni nuovo grido. Lo abbraccio a me, forte, forte, come se lo pregassi di smettere. Appoggio la guancia alla sua testa, ai capelli. È sudatissimo, le gote rosse piene di lacrime… un calore enorme, emana un calore che non avevo mai sentito. Appoggio il viso alla sua fronte. “Smetti, Paolo… smetti, ti prego. Ci sono io. Smetti, sono tuo padre, sono tuo padre!” Niente, sento le sue gote dure, contratte, sento i suoi occhi chiusissimi, come se li stringesse per resistere al dolore. E poi giù lacrime, e lacrime, e grida sempre più forte. Ora ci ho la sua bocca proprio sul viso, la sua bocca spalancata che brucia e preme sulle mie guance. Non ce la faccio più a sentirlo urlare, non deve soffrire, non deve… Mi raccomando a Dio, sì, che m’importa… “Ma basta, Paolo! Basta! Fallo per… basta! ecco, bravo, più piano, sì amore, tossisci, sì, ecco… vomita, vomita, vomita!”
Vomita come vomitasse tutto… sulla mia spalla tutto questo caldo, tutto questo pianto, tutti questi liquidi… tutta questa calma.
“Stiamo meglio, vero?… Sì, stiamo meglio.”
Lo stringo a me… e questa volta è un abbraccio. Come è strano abbracciare un figlio così piccolo. Chissà cosa sente, l’animale… Però mi ha fregato. È la prima volta che provo… che poi chissà cos’è… Un attimo. (Con molta delicatezza posa il bambino sul divano – si siede – lo guarda un attimo – lo sguardo gli va alla televisione) C’è un gran silenzio, ora. Siamo già alla fine. Loro se ne vanno, pianissimo, ancora pieni di paura. Gli uccelli sono lì, immobili, milioni di uccelli fermissimi, sui fili, sugli alberi, sui tetti… tutti in attesa… e non fanno niente.
Eh sì. Hitchcock. un finale senza finale.