di
Gaber –
Luporini
MONOLOGO
(Interno- notte)
Una camomilla… stasera mi ci vuole proprio una camomilla. Ci ho lo stomaco un po’… No, non è che sto male, ma ogni tanto è bello andarsene a letto presto, non fumare… Ecco, la camomilla mi dà proprio questo senso… sì, mi ripulisce.
Ffff!… Bollente. Va be’, aspettiamo. Non è ancora mezzanotte. Ho proprio bisogno di una buona dormita. È un po’ che non riesco a riposare bene. No, non è che non dormo, è che mi sveglio continuamente…
(qualcuno suona alla porta) Il campanello. Chi può essere a quest’ora? Speriamo bene. (si alza)
(parla al citofono) “Chi è?… Ah, sei tu, Marina… Sì, ti apro”. Marina? Va be’, con lei non ci ho problemi. Ma cosa vorrà a quest’ora… e senza Alberto, mi sembra di aver capito. Speriamo che non sia successo niente. Stasera vorrei proprio dormire. Ma sì, è un’amica, glielo dico.
“Marina, che ti succede?” Lei mi si butta al collo… molto più affettuosa del solito. Ho capito. Fine della camomilla.
No, è simpatica, Marina, un po’ matta… cioè, strana… anche com’è fatta: con quel corpo stupendo, le gambe bellissime, alte, compatte, ben tornite… E poi quel viso… No, di viso non è bellissima. Un po’ gonfio agli zigomi, anche qui… sul naso. E la voce? Una voce che non ci sta mica con quel corpo… sì, con quelle cosce… No, non ci sta. “Vuoi una camomilla, Marina?” Si è seduta e mi sembra nervosa. “Ne vuoi un po’? È calda…”
“Macché camomilla! Dammi un whisky.” Non è nervosa, è furibonda. “Non ce la faccio più.”
Non ce la fa più. Lo sapevo. Ecco, mi butta addosso di tutto… su Alberto, s’intende. E si scalda, diventa rossa, sale di tono… “E la bolletta del telefono, la bolletta del telefono!…” Non capisco, provo a domandare, ma lei è partita. “È sempre colpa mia, colpa mia, certo, il telefono… Sono io che spendo i suoi soldi. Mi odia, mi odia!”
“Calmati, Marina!” Niente, non si calma. Dev’essere successo il finimondo, credo. Se ne sono dette di tutti i colori.
“Certo, me ne ha dette di tutti i colori. E io non ce la faccio più, non ce la faccio più a vedere quella sua faccia da aguzzino quando conta gli scatti.”
“Ma quali scatti, Marina!” Ecco, lo sapevo, riviene fuori la bolletta. “Basta, Marina!… Non è niente. Può darsi che sia colpa della Sip…” E lei: “Ma quale Sip? È tirchio, meschino…” Sempre stato, questo è vero, lo so.
“No, non lo sai. Ora è di più. È insopportabile, pazzo, mi fa delle scene isteriche, mi ammazzerebbe per il telefono… capisci?… Mi controlla di nascosto, non posso neanche parlare con le amiche, con mia madre. Ma io gliela faccio mangiare, la bolletta del telefono… Che gli vada giù, gli vada giù!”
Manda giù mezzo bicchiere di whisky, e si calma. Meno male. Ecco, ora ha un altro tono di voce. Accavalla le gambe, devo dire sempre bellissime anche in questa occasione, anche quando con quella sua voce sottile, inadeguata mi dice che è proprio finita. Ha deciso: vuole dividersi. Poi, con una tranquillità spaventosa: “Dormo qui da te due o tre giorni e poi in qualche modo farò”.
Ahi, lo sapevo. Non bisogna mai fidarsi di quelli che all’improvviso diventano calmi. ‘Dormo da te…’ Soluzione geniale. “Certo, Marina, per me va benissimo… Ma i bambini? E Alberto?” E lei: “Non lo voglio più vedere, quel bastardo”.
‘Driinnnn’! Oddio, il bastardo. Non può essere che Alberto. (guarda allo spioncino) È lui. Che faccio? Gli apro? Sono qui con sua moglie… Sì, ma non ho mica fatto niente!…
“Scusa l’ora.” Mi fa lui piano. “Ho bisogno di parlarti.”
Dio, che faccia, però… un funerale. Non vorrei che vedendola… Devo alleggerire. Devo alleggerire. “Lupus in fabula. Entra, vecchio mio, c’è una sorpresa.” Si guardano e… niente: un gelo tremendo. Allora io: “Oooohh!… eccoci qui ancora tutti insieme, come ai vecchi tempi! ” (gesto come dire: niente) Patetico. Non è il solito Alberto, sembra quasi un po’ gonfio… sì, in faccia. Forse i capelli corti… dev’essere andato dal parrucchiere. Si accascia su una poltrona. Neanche una parola. Lei fuma nervosamente. Lui guarda il tappeto. “Vuoi una camomilla? Non è tanto calda…”
“Macché camomilla!” scatta furibondo. “È roba da finocchi.” Come da finocchi? È buona la camomilla. Mamma mia, che belva! Si butta sul whisky con slancio, e giù un bel bicchiere! “No, perché, avanti, che cosa ti ha raccontato?”
E io… “Niente.”
“Figuriamoci niente…” incalza lui. “Chissà quella lì cosa ti ha raccontato di me!”
“Ma no…” faccio io, “cose da niente, stupidaggini, la bolletta del telefono…”
“Ah, ha avuto il coraggio di parlarti della bolletta del telefono!” Aveva ragione lei, la bolletta del telefono lo manda fuori di testa. “Perché tu non puoi capire cosa c’è sotto la bolletta. Lo sai tu cosa c’è sotto la bolletta?”
“Sì, sì…”, dico io, “me l’ha detto… gli scatti…”
“Ve li do io, gli scatti!” Oddio, è già passato al ‘voi’. Mi tirano dentro, lo sapevo, mi tirano dentro.
E lei: “Te lo dicevo io che è un taccagno. Un taccagno schifoso!”
“Sta’ zitta, cretina!” fa lui. Sì, sì, stai zitta Marina… lascialo parlare, lascialo parlare…
Ecco, lui si sfoga, racconta tutto. arriva al dunque. Lo sapevo che c’era sotto qualcosa… sì, sotto il telefono… qualcosa di grosso… Salta fuori un nome. Lui sostiene che è il suo amante, ne è sicuro. Lei nega, è tenace. Lui s’incazza ancora di più: “Non è tanto per l’amante… è che mi fa passare da scemo! E telefona a Roma tutti i giorni…” Ha ragione, maledizione. Se stava a Gallarate era meglio. “Sì, ci stanno delle ore, al telefono. E io pago, capisci?… oltre al danno, la beffa! ” Si ributta sul mio whisky e giù una mezza bottiglia. Mai stato così generoso.
Un attimo di pausa, ma non mi illudo: il tempo di riordinare le idee. Ora lei ce le ha chiarissime. Riprende calma: “Vedi, Alberto…”, la sua voce come sempre è insopportabile, “devi capirlo. Non si può più andare avanti. È inutile. Dobbiamo dividerci.”
Silenzio. Non parla più nessuno. Che sia finita? Lui solleva gli occhi verso di me. E io… (gira la testa) Cosa vuole da me? Poverino, forse piange. (gridando) “Avanti!” mi fa, “diglielo tu che fa schifo!” Non piange. Anzi, scatta in piedi come una molla, urla, sbraita, insulta, tira un gran calcio al tavolo. Lo sapevo. Il tavolo barcolla. Mi alzo per salvare la bottiglia… whisky di malto… bevanda da uomini, altro che finocchi, ventimila, maledetti taccagni, proprio qui dovevano venire, non potevano mica giocarsela in casa, macché, campo neutro, gli ci voleva un testimone, un arbitro… E allora ci penso io: “Siete due pazzi!… Fate ridere, fate ridere… Ah, ah, ah, ah!!!” Niente, la risata li eccita. Anche lei è pronta a scattare. Gliene dice di tutti i colori: “Taccagno, imbecille, babbeo!” Aiuto, vuole la battaglia. Ora si insultano all’unisono, non si capisce più niente, fanno a chi urla di più. Per dio, basta, mi svegliano tutto il palazzo! Sono stravolti. Lei ha la faccia sempre più gonfia. Lui smania, è tutto sudato, sbatte i piedi per terra. “Fermo, fermo!… la portinaia…” Che gli frega, non lo ferma più nessuno. Ha la camicia slacciata, e tutti quei peli sul petto. Non gliene avevo mai visti così tanti. Improvvisamente si getta sulla mia libreria, la scuote. “No, per carità, che c’entrano i libri?!…” Macché, è lo sfogo. La scuote con una violenza incredibile. “Aiuto, fermo!” Aiuto, crolla tutto: PUTUTUTUTUM!!! Einaudi, Adeplhi, Guanda, Ricci… sì, anche quelli da finocchi… È l’apoteosi. Aiuto, sfasciano la casa… sì, la mia. Lui solleva una poltrona. Che forza gli è venuta: un orango! Lo credo, con tutti quei peli. Digrigna i denti. Gli vedo le vene del collo. “Buono, Alberto! La poltrona della nonna! ” Non gliene frega nulla a lui di mia nonna! E su, in aria. Che spavento! Marina schizza via veloce, con quelle cosce, come fa… Ah, si nasconde ora, l’anguillona, evita, sguscia… ed eccola la poltrona che volteggia, scende, scende… Ciao, nonna! CRACRACRA!!!… contro il muro. Si diverte, l’orango. Un carnevale. Ma quale restauro? Mille pezzi: BITITIMTIMTIMPUMPAM!!!… legnetti, schegge da tutte le parti. Aiuto, la guerra, le mitragliatrici! Niente, sono illeso, meno male. Poi la paglia, il polverone… e le piume, le piume… una cascata! Cadono piano. lentamente. Danno sicurezza.
Niente, non è contento. Non si è calmato neanche con le piume. Macché, ha gli occhi iniettati di sangue. Lei se ne frega, reagisce, lo sfida: “Cornuto, cornuto!” “Ma non si dice ‘cornuto’, Marina! Non è il momento…” Non mi ascolta: “Sì, sì, cornuto!” gli grida in faccia, furibonda. “Certo che ho un amante! E non uno solo: dieci, cento amanti!” Sta inventando, vuole farlo impazzire. “Sono stata con tutti, con tutti i tuoi amici… anche con lui!!!”
Con me? “Non è vero, non è vero, te lo giuro, non devi crederle! Io non c’entro niente!” È la fine, lo sapevo. Lui si scaglia contro di lei. Aiuto, che faccio? L’ultima volta che mi sono messo in mezzo era un mastino. Che ricordo, che ricordo! Qualcosa devo fare. Lo strattono un po’, ma da lontano. Lei, coraggiosissima, la pazza, gli sputa addosso. Cerco di tirarla via, con le gambe, come posso. Ecco, finalmente, non ce l’ha più sotto, non ce l’ha più sotto! Allora si morde una mano, si morde una mano, immobile, un tempo infinito… mi pare. Sì, forse il rimorso. Ma quale rimorso?!… Improvvisamente sferra un pugno fortissimo alla stufa… alla mia stufa antica. Un errore! Non si rompe, quella lì… è di ghisa. PEMMM!!! Uuuuhh! Che male. Ulula ora, l’orango. Ulula. Ha il sudore freddo. Ho capito: frattura!
Non c’è niente di più affascinante degli ospedali alle sei di mattino… un silenzio!
Avevo indovinato: frattura del primo e del secondo metacarpo della mano destra. Nella stanza vuota due infermieri un po’ sonnambuli gli preparano l’ingessatura. Alberto è calmissimo. Ci si incontra con lo sguardo. Lui scuote un po’ la testa e mi sorride.
Fuori è già mattino e camminiamo a fianco. Ora mi prende sottobraccio, quasi fischiettando: “Vedi, Giorgio, l’alba è il momento più bello della giornata. È un miracolo. È come se il tempo non esistesse.” Io sono un po’ confuso, non capisco. Ho ancora l’immagine di quello che è successo… E Alberto ne è già fuori. Forse ha ragione lui.
Le uscite d’ospedale all’alba lavano via tutto. Gli umori della notte scompaiono e si cammina leggeri, ripuliti.
A due cose teneva molto, lui: alle albe e alla vera amicizia.