Sogno in due tempi

Album

È contenuto nei seguenti album:

1994 E pensare che c’era il pensiero
1995 E pensare che c’era il pensiero
1997 Gaber 96-97

Testo Della Canzone

Sogno in due tempi di Giorgio Gaber

di GaberLuporini
MONOLOGO

Non si capisce perché quasi sempre i sogni, proprio nel momento in cui, come specchi fedeli dell’anima, stanno per svelare al soggetto i suoi intendimenti nascosti, si interrompono.
Ero lì, in una specie di zattera… un naufragio, chi lo sa… Insomma, sono lì su un relitto di un metro per un metro e mezzo circa, e, stranamente tranquillo in mezzo all’oceano, galleggio.
Cosa vorrà dire… Va be’, vedremo poi. A dir la verità avevo già sognato di essere su una zattera con una dozzina di donne stupende… nude. Ma lì il significato mi sembra chiaro.
Ora sono qui da solo, ho il mio giusto spazio vitale, mi sono organizzato bene, il pesce non manca, ho una discreta riserva d’acqua, i servizi… è come avreli in camera… ho anche un robusto bastone che mi serve da remo.
Non è un sogno angoscioso, ma cosa vorrà dire? Fuga, ritiro, solitudine, probabilmente desiderio di sfuggire la vita esterna che ci preme da ogni parte. Si diventa filosofi, nei sogni.
Oddio, oddio cosa vedo? Fine della filosofia. No, non può essere una testa. Forse una boa. Non so per cosa fare il tifo. La boa fa meno compagnia, ma è più rassicurante.
No, no… si muove, si muove. Mi sembra di vedere gli spruzzi. Non è possibile che sia un pesce. È qualcosa che annaspa, sprofonda, riappare, lotta disperatamente con le onde.
(con enfasi decrescente) È un uomo, è un uomo, è un uomo, è un uomo, è un uomo!
E ora che faccio. La zattera è un monoposto, ne sono sicuro. Per il pesce non ci sarebbe problema, ma la zattera in due non credo che tenga.
(al naufrago) “Non tiene!”
Macché, non mi sente. Sarà a cento metri. Che faccio? Ma come ‘che faccio’… Sono sempre stato per la fratellanza, per l’accoglienza, l’ospitalità. Ho lottato tutta la vita per questi principi. Sì, ma non mi ero mai trovato… Ma quali principi? Questa è la fine. Qui in due non la scampiamo. E lui avanza verso di me, fende le onde. Sarà a settanta metri, cinquanta, trenta… Madonna, come fende!
Quasi quasi gli preparo un dentice. E se non gli piace il pesce? Se gli piace solo la carne?… umana. E no, calma, io devo pensare a me, alla mia sopravvivenza: mors tua vita mea. Oddio… non dovrò mica ucciderlo?
Ma che dico, sto delirando! Lo devo salvare. Poi in qualche modo ci arrangeremo, fraternamente, ci sentiremo vicini. Per forza, non c’è spazio… stretti, uniti, corpo a corpo…
Guarda come nuota… è una bestia! Ma io lo denuncio! Ormai sarà dieci metri. Mi fa dei gesti, mi saluta… mi sorride, lo schifoso. Ma no, poveretto, cosa dico, per lui sono la salvezza, la vita, eh!
Che faccio? Che faccio? Potrei prendere il bastone, potrei allungarglielo per aiutarlo a salire… Potrei darglielo con violenza sulla testa. Siamo al gran finale del dramma. Il dubbio mi divora. L’interrogativo morale mi corrode. Devo decidere. L’uomo è a cinque metri, quattro, tre… prendo il bastone e…
E a questo punto mi sono svegliato. Maledizione! Non saprò mai se nel mio intimo prevale il senso umanitario dell’accoglienza o la grande paura della minaccia. Devo saperlo, devo saperlo, non posso restare in questo dubbio morale, devo sapere come finisce questo sogno!
Cerco di riaddormentarmi, mi concentro… voglio dire, mi abbandono. Qualche volta funziona.
Ecco, ecco… sì, ce l’ho fatta: l’acqua, l’oceano, le onde… giusto. Un uomo su una zattera… giusto. Un altro che nuota, arranca, annaspa disperato, sento il cuore che mi scoppia. Oddio… che succede? Sono io… sono io quello che nuota. No, io ero quell’altro, eh! Non è giusto, non è giusto! A me piaceva di più stare sulla zattera. Ma quale dubbio morale… Ho le idee chiarissime. Sono per l’accoglienza!
Un ultimo sforzo, la zattera è a cinque metri, quattro, tre… Alzo la testa verso il mio salvatore… Eccomi!
PUMMM! Dio, che botta!
A questo punto mi sono svegliato di nuovo. Mi basta così. Non voglio sapere altro. Spero solo che non sia un sogno ricorrente.
*Però una cosa l’ho capita. No, non che se uno chiede aiuto gli arriva una legnata sui denti, questo lo sapevo già. Ho capito quanto sia pieno di insidie il termine ‘aiutare’. C’è così tanta falsa coscienza, se non addirittura esibizione nel volere atutti i costi aiutare gli altri che se, per caso, mi capitasse di fare del bene a qualcuno, mi sentirei più pulito se potessi dire: non l’ho fatto apposta. Forse solo così tra la parola ‘aiutare’ e la parola ‘vivere’ non ci sarebbe più nessuna differenza.*

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