Fata, La Famiglia Monca, Il Violinista Pazzo E Lo Scrittore Fantasma – Miike Takeshi Testo della canzone

Il Testo della canzone di:
Fata, La Famiglia Monca, Il Violinista Pazzo E Lo Scrittore Fantasma – Miike Takeshi

{Strofa 1}
La madre lava i panni, l’acqua fiumana è torbida
Dice “Le vesti danno i malanni”
Il padre, conta gli anni rimanenti a leccare scranni
Annichilendo le labbra morse dai denti
Il figlio: complimenti dalla città
Citazioni delle più alte dedite alla castità
Caustica, altolà il pudore, Fata
Figlia minore in facezie carnali d’altolocate signore
Un lieto giorno, colmo di dissapore
Fata tese l’orecchio ed udì uno strano stridore
Testuali parole, uno strano stridore
Perché mai udito disse la nostra nel più completo stupore
In completo in fiore, fioraia svampita
Spaurita corse per casa si denudò ma impudica
“Ma dica Fata”, puntò il fratello
“È guisa vagar per casa come una dama di fama in un bordello?”

{Strofa 2}
Fata rimase muta mutando in volto
Represse un ghigno ignorante e si fece risoluta
Ma di colpo rapita, si voltò e schioccò le dita
Riprese i pregiati abiti e li squarciò tra le grida
La madre assorta in faccende di sorta
Come levar tende tendenti al viola che accorpa
Il cadavere più attivo, udito il grido ridonò lesta coscienza
All'apparentemente morto marito
Redivivo ora, anche se avrebbe preferito l’infinito
Buio pur di non baloccarsi sfinito
I coniugi s’interloquirono con gli occhi
Come stare a guardare una veste, “che non si rattoppi!"
Troppi gli accostamenti certi
Fior fior di danari a ridar aria, mancanti ai suoi esponenti
Esperti della mala intenzione delle altre genti
Gentili, ma coi peli pubici sotto i menti

{Strofa 3}
Tornando a Fata, la faccia infossata
Cupa, rideva ossessa come spiritata e posseduta
Stessa sorte toccò al fratello
Che all'insolito canto d'augello iniziò a sentir palpiti sulla nuca
Ambedue estatici, gaudenti
Giunsero ad apici alzando i calici di volontà inconcludenti
Per pratici spiriti acritici, civici vicinati
Vaccinati con prediche, etiche reticenti
Fata, sentitasi leggera, toltasi dal volto la cera
Danzò piena di sicumera
Ed il sinuoso suo corpo s’accorpò al dinanzi a lei ignudo
E consumarono, ma senza lasciare avanzi
“Quale strana malia ammalia i miei figlioli?”
La madre tra acri lacrime ai santi salvatori
“Apologia del diavolo!” cantarono gli invasati
“La piazza del paese è il suo ricettacolo!”

{Strofa 4}
Vivevano in un quieto paesino fuori dal mondo
Per loro in fondo poco genuino
E fu costituito da un tale americano
Un noto scrittore, il filosofo dell’arte del cammino
Savio sapiente, inizialmente seguito da accoliti romiti
Indomiti contro il crescente
Valore della tecnica
Rendendo la persona un misero numero dall'identità asettica
Ma le prospettive di vita autentica
Svanirono nell'indole che si dimentica
E non ruppe i legami e seppe trovare ragione
A ciò verso cui prima non credette
E sedette sulle parole dette
Rinnegandole dato che il frutto non era più conveniente
Ed il carattere primigenio dell’umana natura
Minò realtà idilliache e perfette
Quale sconforto per il nostro scrittore
Che preso posto in piazza, vi parlò con fervore
Con attenzione udirono i suoi compagni
Le invettive più crude alla società dei guadagni
I fratelli, come osava chiamarli
Tolti i cappelli, su le maniche e tesi gli sguardi
Lo brancarono, spogliarono
E ne immolarono il corpo sommerso da lieti canti

{Strofa 5}
Esagitato il figlio, dal piglio sfacciato
Denigrava con trasporto educandi ed il loro stato
Atoniche frecciate scoccate contro le grate
Imposte dai vate e vaticinate ad un prostrato
“Castrato!” latrava avanzando celere tra i casolari isolati
Ormai avvolti dalle tenebre
E rimuginava tristemente la repulsione
Precedente alla sua attuale compulsione
Fata, assorta da associazioni quali gli atteggiamenti tenuti
Temuti per le convenzioni
Sottratta alla coscienza da quel suono virtuoso
E tagliente fu fatalmente vinta dalle passioni
Tastò la carne, riempì i polmoni, il flusso!
Sentì la vita scorrere senza motivazioni
Grattandosi placidamente il basso ventre
“divertente!” pensava a dispetto di convinzioni

{Strofa 6}
Condizioni precarie per la madre
Sconcertata da tali oltraggi come fosse offesa più grave
Come tesa a vagliare la sua parte nel tutto
Ma un muro senza costrutto non era da ponderare
E cominciò a sfoderare affabilità materna
Con la voce spezzata di chi si prosterna
Piangeva come conferma, rideva
Come vedesse pregresse vite d’un’umanità inferma
Ferma l’espressione del padre
Un poco annoiata da quelle muliebri fisime, ma abituata
Alla facciata della malattia fisica
Claudicante per una sciatica immaginata
Che gli serviva a presentarsi ai creditori
Indebitatosi per pagare solerte le tassazioni
“Popolo d’imbroglioni!” passava le notti insonni
Pensando a trovare rimedio a quegli affabulatori

{Strofa 7}
E camminavano in fila indiana, in mutismo
Assorti in quell’intrico musicale, come panismo
O meglio: Fata e il fratello perduti
La madre e il padre tentennanti
Speculanti su dei giunchi caduchi
Ma giunti al luogo, i visi adunchi
Il suono si fuse e confuse con voci diffuse in insulti “Al rogo!”
Una pira piramidale stagliavasi al centro della piazza
Aizzando la folla col giogo
Chi si scrolla dell’uomo? Lo stesso uomo
Indefesso nel fare di un dono un trono regresso
Buono a sapersi, perfino il più infimo
Vi sfido, non placherà il compiacersi
Ed erti due uomini su una palafitta
Trafitta da lingue infuocate ma loro, incolumi
E compiacenti, guardavano quel nugolo
Nucleo di deficienze come tratti salienti

{Strofa 8}
Ed apparve al vento un violino, di cui il primo
(dei due uomini erti in sacrificio)
Mise appunto l’accordatura ed il vicino
Scomparve, magiiiiiaaaa!
A bocca aperta gli astanti, increduli
Parevan bianchi lemuri sognanti
Esuli dalle carcasse in putrescenza
Furono colpiti da un’infausta reminiscenza
“Nostra sentenza!” dalle file arretrate un boato
Investì la folla che annunciò la presenza
Dello scrittore immolato
Sfortunato fondatore di un utopico paese a lui ingrato
Tra chiese, stato, un diorama capitalistico
Che richiama ed ama l’ego più opportunistico
“Chiediamo venia!” i cittadini imploravano
E continuavano quell’ignobile nenia
Sotto gli occhi di Fata, che cercava il fantasma ma rideva
Mica la prese come una cosa seria

{Strofa 9}
E c’è da dire ch’ella nacque dopo il misfatto
E, dello scrittore, non le fu mai menzionato alcun atto
O rammentato ritratto, dimenticato
Soverchiato in onore del peggiore pudore sottratto
Un colpo al cuore! La madre muore duole il petto!
Effetto di risonanza in concomitanza al non detto
Che riaffiora dalle spoglie mentite
Moglie mite che accoglie vite altrui senza sospetto
Fuorché del diretto interessato
Il nostro scrittore, che diede amore a quella donna
Il suo seme, caldo liquore
Araldo celato a tutti, e tutti ignari dello scoramento
Lamento indisponente gli avi
E il violinista, rimasto con discrezione a osservare in quel fuoco
Che mano a mano perdeva vigore
E si spense, accennando a Fata prese parola
Lanciando occhiate alla madre delle più intense

{Strofa 10}
E Fata pareva proprio non capire
Il sunto concettuale che la voleva irretire
E convertire quei significanti in significato
Significava per quella bella fanciulla morire
“Il sangue della menzogna!” prese a dire
Col fare di chi abbisogna un pretesto per non sentire
“Oh sire! Chi siate lo ignoro
Ma v’imploro per tutto l’oro del mondo di non mentire"
Il violinista, poco sorpreso in effetti
Prese dalla tasca il migliore tra i suoi archetti
Ma si fermò e considerò la folla immobile
Ormai morta e scorta nelle espressioni più stolide
E poi disse: “io sono la volontà di tuo padre
Il braccio, l’arto, l’azione, prima che morisse”
Il passaggio del testimone alla figlia
L’unica depositaria dell’umana evoluzione

{Strofa 11}
Ultimata l’arringa, tuttavia
L’espressione di Fata era poco convinta
Ma vinta dalla situazione fu avvinta
Da una consapevolezza atavica da sempre estinta
E l’arco si fece archetipo di morte
Strumento di letizie e al contempo d’infausta sorte
E sevizie, melodie di perdizione
Che facevano dell’immolazione loro consorte
E la massa, in preda al delirio più bieco
Mutò in un’orda belluina di furore cieco
Recando l’eco della repressione sociale
Per l’animale fu animale il vicino più lieto
E i desideri evoluti si espressero
Morte e sesso non si sapeva bene da chi dipendessero
Orge di corpi, di chi in amplesso, di chi indefesso
Non si accorgeva neanche dell’altrui decesso

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