Canzoni della ToscanaCaterina Bueno
Or sentite l’argomento tutti quanti
di un contadino a’ suo signor padrone,
dice: «Nun l’ho né vitto e né contanti
dop’ che l’ho digiunato San Simone».
Gli risponde: «Fra poco semo a tutti i santi,
sconta quando facei tre colazione»;
lo sfugge, lo rimprovera e minaccia
e per di più gli chiude l’uscio in faccia.
A Dio si raccomanda a larghe braccia
e col figlio maggiore si consiglia.
«Datemi i sacchi – risponde Pasquino –
o bastono il padrone o vo al mulino».
Di corsa come un frate a mattutino,
dicendolo: «Unn’è l’ora di pensalla»;
giunto alla porta bussa ogni tantino
con sette sacchi vuoti ‘n su la spalla.
Gli risponde il padrone da un finestrino,
dice: «Vanne, Pasquin, con quelle balla;
ti presi l’olio e il vino e l’altre entrate
pe vedé se quel chiodo si scancella.
Tu se’ più duro delle cantonate;
e smetti di tirà la campanella,
pensa a darmi i’ mangiare e pensa a i’ bere
e ottengo le faccende del podere».
«Che bella forza mettersi a sedere!
C’è che beve le fonti e i’ fiume e i’ mare
mentre di fame le famiglie intere
fòr di stato son iti a lavorare».
«Tu pòi partire e gli altri rimanere
e regolarti di mòrto ni’ mangiare:
solo una volta al giorno e l’acqua e il pane
e spedire una somma a chi rimane».
«Allora lei mi tratterebbe peggio di un cane;
nun sono avvezzo a fallo i’ galeotto
ma nemmeno i’ digiun delle campane;
se ci vòle andar lei faccia fagotto.
Se lavoro i’ terreno con le mane
son securo che vinco il terno a’ lotto,
se ‘un d lavoro gnene dico: in vigna
come i ciuchi si mangia la gramigna».
«Peggio tu sei della febbre maligna,
avetti intorno te, mangia-guadagni,
pe’ me sarebbe meglio aver la tigna:
potre’ guarì co medicina e bagni.
Nun ti dò nulla, se la vò capire,
questi beni per te nun vò fenire».
«Ma nemmen io di fame e vò morire,
venderò vacche e bovi ed altri armenti;
con quelle quattro o cinquemila lire
mi leverò la ruggine da’ denti.
In tutti i modi vò il portafogli empire
de’ vecini più cari e de’ parenti,
almeno me la cavo la paura;
padrone, arrivederci a battitura».
«Pasquino, la farai trista figura;
senza di me ‘un manda le bestie in fiera,
ti mando la disdetta in escrittura,
tu passerai da ladro e va’ in galera.
Te l’ho promessa un po’ di paglia dura,
te l’ho promessa la scorsa primavera:
quando nel colmo siei de le faccende
io ti darò un quintale di polende».
«Ora sì che la mi chiappa in dov’ella m’intende:
queste parole a lei gli fanno torto,
veramente di me cura si prende,
vuol dar la biada al ciuco quand’è morto.
Dalla fame uno cade e l’altro pende
e che sarà se i’ grano nu’ gli porto?
Fo giudicare a lei, tra cinque mesi
qualcun ci troverà tutti distesi».
«Se questi soldi ‘un tu gli avessi spesi
in giubbe, stivalini e pantaloni?
Andate a spasso pari dei marchesi
con le ragazze alla barba dei padroni;
vu’ fate i gobbi e compari belli,
stampate più lunari di Baccelli».
«Ma sa, padrone, a’ mondo siam tutti fratelli;
l’ama più l’animali de’ cristiani,
che cosa ne fa lei di mille uccelli e gatti,
dieci cavalli e venticinque cani?
Tra spie e scrocconi e servi e manganelli
tiene in cucina cento leccapiatti».
«Pasquino, bada ben come tu tratti;
prima de’ cani mòia i contadini;
lo sai che nu’ li tengo lì pe ‘mbratti,
lo vado a caccia e giro i miei confini».
«Allora perché mi discaccia e mi molesta?
Lo potesse, anche i’ sangue me lo cava:
s’arriva a scompartire e a me mi resta
di sette monti nemmeno una fava».
«Tu canti bene, pari un rusignolo;
son tutti segni e fantasie d’amore,
se pigli moglie avrai più d’un figliolo,
un branco che me mettano il terrore;
e poi li manderai con tante sporte
a consumà i battenti a queste porte».
«Ma se sposo l’Annina incontro sorte,
una serva gli tocca la sua parte:
ragiona, pare un giudice di corte,
l’ha un taglio sfiderebbe mille sarte;
e per complimentarli anche i padroni
la sa più lunga lei di Barattoni».
«S’è ver cotesto, più non si ragioni:
da me la manderai sera e mattina
a cucinarmi pane e maccheroni,
far le faccende in camera e ‘n cucina,
a riguardarmi mutande e calzoni,
le chiavi di granaio e la cantina;
e io di vino te ne dò un barile,
un sacco t’empirò di gran gentile».
Parte Pasquino con maniera umile,
sposa l’Annina e cessa ogni appetito,
allegro come un àseno in aprile
quando vede il tarfògliolo fiorito.
L’Annina con maniera femmenile
prima serve i’ padrone e po’ ‘l marito;
svelta, va su e giù franca e sfrontata,
la basterebbe a sérvilla un’armata.
Amici, qui la storia è terminata:
chi prende moglie impari da Pasquino,
che con la serva s’ebbe anche l’entrata
e non gli mancò più né pan né vino.